La guerra spietata ai cinghiali

Da qualche anno il nostro paese ha dichiarato guerra agli animali selvatici e in particolare ai cinghiali.

È iniziata dapprima con accordi tra le singole regioni e i municipi, come a Roma, quando nel 2019 fu siglato il primo piano di abbattimento tra Comune di Roma e Regione Lazio – poi rinnovato sotto le successive amministrazioni -, in Toscana con la legge Cremaschi, poi a seguire in Liguria, Reggio Calabria, Campania e altre ancora. Una guerra spietata accompagnata da un odio feroce per questi animali pacifici e da episodi di crudeltà inaudita, come il recente caso di un cinghiale investito e poi lasciato agonizzare a bordo strada per circa 16 ore o l’altro in cui ad alcune volontarie di un Rifugio è stato impedito di soccorrere un cucciolo di cinghiale caduto in un fossato, che poi è stato freddato davanti alle volontarie stesse.

Un elemento essenziale di ogni guerra è infatti la propaganda, cioè la diffusione mediatica di notizie funzionali a far credere che esista un problema o una vera e propria emergenza così creando un clima di terrore, odio o comunque di preoccupazione per poi giustificare le varie misure in corso.

Il primo elemento di questa narrazione ad hoc contro i cinghiali è stato quello del sovrannumero con conseguente danno alle colture e migrazione degli animali in cerca di cibo nelle aree urbane; e poco importa che gli agricoltori vengano risarciti dall’Unione Europea e che l’incontro sporadico con questi animali non rappresenti affatto un pericolo; secondariamente ci si è appellati alla diffusione della peste suina, che comunque, ricordiamo, non è affatto pericolosa per noi esseri umani, ma si propaga solo tra i suidi. Ad essere allarmati per la peste suina sono gli allevatori di maiali e i cacciatori che procurano la carne di cinghiale ai ristoratori e non certamente per motivi di preoccupazione inerenti la salute degli animali, ma per quella delle loro tasche perché gli individui affetti da peste suina comunque non sarebbero commestibili e morirebbero in tempi brevi.

Ovviamente questi argomenti sono supportati da una precisa visione di fondo, ossia che i selvatici siano un bene da tutelare e quindi apprezzabili solo nella misura in cui restino lontani da noi, in zone recintate e controllate o in cui costituiscano una fonte di reddito. Mai visti come singoli individui con una loro storia, famiglia, interessi, ma soltanto parte indistinta di una ancora più indistinta natura che in nessun modo deve sfuggire al controllo della nostra civilizzazione – tanto simbolica quanto materiale – e che soprattutto deve continuare a restare serbatoio inesauribile di risorse rinnovabili.

In questa visione antropocentrica ogni evento che viene percepito come non governabile o come dannoso economicamente deve essere immediatamente gestito con soluzioni istantanee e mortifere – che insomma non comportino spesa di tempo e di denaro – perché i selvatici e gli altri animali in generale sono esclusi da ogni considerazione morale. Come sappiamo anche negli allevamenti si preferisce sopprimere gli animali malati anziché curarli poiché le spese sarebbero più costose rispetto al reddito ottenuto dai loro corpi macellati e l’esistenza di questi individui è contemplabile sono in un’ottica di profitto.

Quindi, ammesso e non concesso che ci si trovi di fronte a un aumento della popolazione dei cinghiali, anziché trovare soluzioni rispettose, si preferisce procedere con piani di abbattimento.

È sconvolgente la miopia, anzi, direi, vera e propria cecità che le istituzioni e le varie figure politiche deputate a prendere decisioni in tal senso hanno dimostrato negli ultimi anni, ignorando la vasta letteratura etologica e veterinaria che descrive quanto uccidere anziché essere la soluzione costituisce in realtà la prima causa dell’aumento della popolazione dei cinghiali. Un aumento che però, verrebbe quindi da pensare, non si vuole affatto limitare, ma torna comodo continuare a essere sbandierato come scusa per continuare a promuovere la caccia, anche se buona parte della popolazione la ritiene ormai una pratica obsoleta e crudele.

In rete si trovano diversi articoli che spiegano come sono organizzate le popolazioni di cinghiali.

Il professor Andrea Mazzatenta (docente alla Facoltà di medicina veterinaria dell’Università di Teramo), spiega chiaramente come i cinghiali si organizzino:

In una società matriarcale, in cui ogni famiglia è comandata da una femmina, la ‘matrona’ o matriarca, madre di tutti i componenti (tranne i maschi maturi, che vengono allontanati dal gruppo). La matrona emette un feromone che blocca l’estro delle altre femmine: è lei l’unica che si riproduce, ma è anche quella che è più a rischio per la caccia, perché negli spostamenti mette al sicuro i piccoli e tutti i componenti del gruppo e finisce per esporsi di più ai colpi dei cacciatori. Se viene uccisa, però, il blocco scompare e tutte le altre femmine vanno in estro. Risultato: se prima la matrona aveva solo 5 o 6 cuccioli, poi le sorelle finiscono per formare gruppi di 50 esemplari. In sostanza I cacciatori uccidono la mamma, l’unica del branco che può entrare in calore, essendo la struttura del gruppo matriarcale. Le cucciole e le altre femmine si sparpagliano, diventano capo branco e vanno tutte in calore, moltiplicando così la popolazione.

(fonte: La stampa e Moondo Animali).
Sovrappopolamento dei cinghiali. La caccia non è la soluzione, la caccia è il problema.

Oltre a ciò, è bene ricordare che la specie di cinghiali attualmente diffusa nel nostro territorio è originaria dell’Ungheria ed è stata introdotta nel nostro paese proprio per fini venatori. Un tempo i cinghiali autoctoni erano infatti diffusi solo in poche zone del nostro paese, la Maremma e le Alpi. I cinghiali ungheresi inoltre sono quasi il triplo di dimensioni rispetto a quelli autoctoni e con una prolificità che nel corso degli anni è andata raddoppiando.

È quindi scientificamente provato come la caccia anziché rappresentare una soluzione sia in realtà la prima causa dell’aumento della popolazione dei cinghiali, e non solo: in ogni habitat c’è un equilibrio tra prede e predatori che fa sì che il numero delle specie si mantenga entro i limiti che quell’habitat offre in termini di cibo e ospitalità; solo la nostra specie, dotata di mezzi tecnologici importanti ed evidentemente devastanti, interviene con modifiche significative e quasi sempre distruttive che nel tempo portano all’esaurimento delle risorse, scomparsa di alcune specie e riproduzione eccessiva di altre. Per di più, anziché apprendere la lezione, continuiamo a reiterare gli stessi schemi distruttivi, come in una coazione a ripetere patologica da cui soltanto i cacciatori traggono benefici. In pratica, anziché tutelare la fauna selvatica e i delicati equilibri dell’ecosistema, le istituzioni si adoperano per soddisfare la sete di violenza dei cacciatori.

Per ultimo, ma non in ordine di importanza, vorrei aggiungere una riflessione: il rifiuto di continuare a uccidere i cinghiali e gli altri selvatici, prima che da questioni pratiche indirette quali appunto la necessità di evitare che una specie si riproduca in maniera eccessiva, dovrebbe innanzitutto essere motivato da una considerazione antispecista degli altri animali, ossia dalla consapevolezza che ogni individuo senziente viene al mondo in quanto unico soggetto della sua vita e non per soddisfare i nostri interessi, che siano la caccia per divertimento o quelli economici.

Se i nostri antenati, con mezzi decisamente più anacronistici – e quindi anche meno efficaci – cacciavano per necessità di avere del cibo, oggi questa motivazione viene a cadere perché la moderna agricoltura consentirebbe di soddisfare le esigenze alimentari dell’intero pianeta. La caccia è solamente una tradizione anacronistica foriera di squilibri naturali, ma soprattutto una pratica inutilmente crudele.

Vista la nostra natura di onnivori, cioè quella di essere animali carnisti per cultura e non per necessità biologiche, dovremmo abbandonare le pratiche culturali all’insegna del dominio e della sopraffazione basate su credenze ormai superate e sposare una visione più razionale e intelligente nei confronti delle altre specie.

Aggiungo che non dovrebbe nemmeno essere il sentimento animalista a farci provare empatia per gli animali, ma, appunto l’intelligenza emotiva e sociale, la razionalità, la capacità di capire che non siamo la specie più importante e nemmeno la più utile. Siamo anzi l’unica specie che con la propria estinzione favorirebbe il risanamento del pianeta. Forse, prima di arrivare a tanto, potremmo provare a cambiare radicalmente il nostro approccio verso gli altri animali a partire dal rispetto dei selvatici e dall’abbandono di ogni tipo di pratica venatoria.

Rita Ciatti

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Ma le pecore sognano lame elettriche? Un libro scritto da Rita Ciatti

“Ma le pecore sognano lame elettriche?” di Rita Ciatti è un testo che analizza il nostro rapporto con gli animali alla luce dello specismo. Il titolo, in omaggio al noto capolavoro di Philip K. Dick (“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”), ci mette in guardia da soluzioni future ancora più alienanti e distruttive per gli animali che passano sotto il nome di “benessere animale” e che, nel pretendere di migliorarne leggermente le sorti, ne ribadiscono e continuano a legittimarne il silente sterminio. Questo libro è sicuramente portatore di una visione radicale, ma ormai non più rimandabile.”

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