Lo voglio è un racconto che mette in luce il rapporto speciale che intercorre tra gli animali e i bambini. Perché i bambini sono privi delle sovrastrutture mentali degli adulti e sono ancora capaci di dar voce ai sentimenti e indicare agli adulti la giusta ed efficace strada del cuore.
Una nuvola di peli bianchi, fitti e soffici come zucchero filato gli apparve davanti agli occhi. Il bambino non aveva mai visto un cane così bello. Era ricoperto di morbidi riccioli attorcigliati alla cute come candide spirali. E aveva lunghe e affusolate zampine che pareva quasi non toccassero il suolo ma che lo sfiorassero dolcemente.
Il bambino si fermò ammirato osservando quel piccolo esserino vaporoso dell’incidere signorile.
“Lo voglio.” Disse, stringendo forte la mano della madre come per ottenere la sua più completa attenzione.
“Cosa?” Rispose lei distratta.
Lui lasciò la presa e si accucciò davanti al cane, accarezzandolo.
Il barboncino prese a leccargli il viso e le mani. Il bambino scoppiò a ridere quando quella piccola linguetta gli finì dentro un orecchio.
“Lo voglio.” Ripetè, fissando la madre.
Nei giorni seguenti il ragazzino tormentò i genitori con la solita monotona litania: “voglio un cane.”
Loro opposero resistenza.
“Vuoi un cane? E chi si occuperà di lui? Tu?”
“Sì.” Rispondeva lui fin troppo entusiasta.
“Dovrai portalo a passeggio più volte al giorno e dovrai raccogliere i suoi bisogni. E ricorda che il cane non è un oggetto, lo dovrai accudire per tutta la sua vita.”
“Sì.” Ripeteva lui con voce sempre più euforica come se gli avessero proposto una gita al parco giochi.
“Se sarai promosso ti compreremo un cane.” Cedette alla fine il padre.
“Sì!” Disse lui alzando il pollice davanti alla faccia della madre che continuava a fa “no” con la testa.
“E ora dobbiamo solo fare in modo che venga bocciato.” Disse l’uomo sghignazzando, rivolto alla moglie che ancora scuoteva il capo.
“Andrò a parlare con la maestra e le racconterò che sono io a scrivere tutti i suoi compiti.” Rispose lei con un accenno di sorriso.
“Spiritosi!” Gridò il bambino saltellando dalla gioia.
Il ragazzino fu promosso a pieni voti, non aveva mai studiato così tanto come in quei sei mesi che mancavano al termine dell’anno scolastico.
E così in un bel giorno caldo e assolato di metà giugno i genitori lo portarono a visitare un allevamento di barboncini.
Il bambino scelse un cucciolo, il più grassottello della cucciolata, anche se li avrebbe volentieri portati a casa tutti. Ma la madre frenò il suo entusiasmo.
“Prima di scegliere un cucciolo ti porteremo a visitare anche un allevamento di bassotti.”
“Perché?” Protestò lui.
“Perché a mamma e papà piacciono molto e magari piaceranno anche a te.”
“Ma…”
“Niente ma. Hai aspettato sei mesi, puoi aspettare un paio di giorni in più.”
Passò una settimana intera durante la quale il bambino si lamentò ogni giorno.
“Ma quando andiamo all’allevamento di cani bassi?”
“Domani.” Rispose la madre.
Il giorno seguente mentre il ragazzino stava per aprire la portiera dell’auto, eccitatissimo al pensiero di vedere dei nuovi cuccioli, un cane gli corse incontro e incominciò ad annusarlo scodinzolando.
Il ragazzino lo accarezzò e il cane si erse posando le zampe anteriori sulla sua pancia, tentando di leccargli il viso. “Di che razza è?” Domandò sorridendo alla padrona dell’animale.
“È un meticcio.” Rispose lei. “Non appartiene a nessuna razza, a occhio e croce è solo un buffo incrocio tra un bassotto e un labrador.
L’ho adottato.” Concluse la donna restituendo il sorriso.
“Perché i cani si possono adottare?” Domandò stupefatto il bambino.
“Certo, al canile, dove ci sono tutti quei poveri cani che vengono abbandonati dai padroni.”
“Al canile non sono felici?” Chiese lui continuando ad accarezzare il cane che ora si era buttato a pancia all’aria.
“No di certo, sono rinchiusi in piccole gabbie e sono soli e tristi. I volontari li accudiscono ma non è certo come avere una famiglia. Ci sono troppi cani abbandonati e troppo pochi volontari, purtroppo. E se adotti un cane lui te ne sarà grato per tutta la vita.”
Quando la donna lo salutò lui esitò, volse un ultimo sguardo a quel cagnolino dalle zampette cortissime e lo sguardo dolce che trottava felice al guinzaglio e si rivolse ai genitori.
“Portatemi al canile.” Disse.
“Non diciamo stronzate.” Rispose il padre chiudendo la portiera.
“Tesoro…i cani del canile hanno un sacco di problemi comportamentali. Conviene che lo compriamo È più sicuro. E poi i bastardi sono molto più bruttini.” Aggiunse la madre.
“Non si tratta di bellezza, si tratta di fare la cosa giusta.” Rispose il bambino. “Il cane non è un oggetto. È quello che mi hai spiegato tu mamma. Il cane è un essere vivente come te e me. Portatemi al canile.”
Il canile non era esattamente come lui se lo aspettava. C’era un gran fracasso. I cani appena lo videro iniziarono ad abbaiare tutti insieme sporgendo il muso attraverso le sbarre della gabbia. I versi che facevano, potenti e disperati, mettevano tristezza.
Lui avrebbe voluto portarseli via tutti.
Ma poi si innamorò dell’unico cane che stava in disparte, quasi convinto che nessuno lo avrebbe mai scelto.
Stava accucciato in un angolo della gabbia, silenzioso e rassegnato.
“Voglio lui.” Proclamò il ragazzino indicando un cane dal pelo nero come la notte e il muso ricoperto da un’ispida barbetta.
“Il più brutto.” Si lamentò la madre.
“Almeno è l’unico che non ti spacca i timpani.” Aggiunse il padre con un mezzo sorriso.
Si sedettero sul letto lui e il cane, un piccoletto dalla testa grossa e le zampe massicce e si rotolarono sul copriletto tra baci, laccate e carezze sulla pancia.
“Ti adoro.” Disse il bambino stringendo al petto il cane. “Anch’io.” Abbaiò l’animale leccandolo sul naso e pungendolo delicatamente con la fitta barba.
Melania Corradini